Mosè

Mosè Bartesaghi sulle scale della sua casa a Scarpatetti
Mosè Bartesaghi sulle scale della sua casa a Scarpatetti

L’ho conosciuto a Scarpatetti, mitico rione di Sondrio, dove ci si amava e ci si odiava come in una grande famiglia dal grande respiro, dove la legge della solidarietà guidava un po’ tutti, grandi e piccini dove i ragazzi erano orgogliosi di essere segnati come quelli di “Scarpatecc” sempre pronti a farla a sassate con quelli di Gombaro o del Piazzo ma anche capaci di gesti di generosità e di fedeltà alle persone, al lavoro alla natura alla giustizia valori non facili da trovare altrove.
Un rione fatto di memorie dal sapore antico come le montagne, come la polenta taragna, il vino “inferno”, il salame del “por ciun”. La prima volta che l’ho incontrato era seduto fuori di casa con un mandolino in mano, poi l’ho visto in bicicletta, dalle parti di Colda, mentre a piedi con i ragazzi dell’oratorio salivo verso Carnale, a quei tempi luogo per pochi intimi. Contemplare le foto di Mosè Bartesaghi vuol dire riscoprire radici antiche…nelle sue fotografie trovi la sua voglia di vivere il cuore incantato della sua Scarpatetti, ora ritratta poeticamente come paesaggio, come luogo d’incontro di feste religiose e laiche, ora come dolce memoria delle sue persone, giovani e antiche che siano, operai del Fossati o contadine abituate a lavorare a ritmi delle stagioni, bruciate dal sole o imbiancate dal freddo inverno..Mosè Bartesaghi è un vero artista: se non è stato lui ad abitare l’arte, è l’arte che lo ha abitato. Forse con quel nome di “profeta” che si porta dietro da sempre, temeva che qualcuno prima o poi questo mondo antico lo avrebbe rovinato o deturpato o banalizzato, così ce l’ha voluto salvare dalle “acque” dei “vandali moderni” che cancellando o tenendo in poco conto le memorie cancellano il loro passato, vietandosi il futuro.

Don Vittorio Chiari, presentazione del catalogo di fotografie ”Mosè Bartesaghi. Una vita di fotografie” a cura di Antonio Boscacci, 1994
Mosè Bartesaghi nasce il 22 luglio 1909 a Sondrio in via Scarpatetti, via alla quale rimarrà sempre profondamente legato. Nella sua vita di fotografo, come si vedrà dalle immagini, un ruolo molto importante verrà svolto da questa antica via di Sondrio, o se si preferisce da questo angolo della vecchia Sondrio. che si è sempre caratterizzato come un “piccolo paese dentro una città”.
Il padre, Giuseppe Bartesaghi, era nato in Brianza e si era trasferito in Valtellina alla ricerca di migliori condizioni di vita. Stabilitosi a Sondrio e rimasto vedovo, si era risposato con Pedrazzoli Angela, sorella della prima moglie (a quel tempo era una consuetudine piuttosto diffusa), dalla quale ebbe quattro figli, ad uno dei quali, con un forte richiamo biblico, diede il nome di Mosè.
La madre, per arrotondare il magro stipendio del marito, che faceva il riparatore di carri, lavorava alla vecchia filanda di Sondrio.
Anche gli zii, che vivevano in via Scarpatetti, erano in rapporti molto stretti con questa filanda, perché avevano impiantato un piccolo allevamento casalingo di bachi da seta. Per nutrire i bachi erano stati anche piantati alcuni gelsi, l’ultimo dei quali è rimasto, fino a qualche anno fa, a metà della via Scarpatetti, a fianco dell’entrata del “rifugio antiaereo”.
Quando il sogno della seta in Valtellina svanì, anche le filande chiusero ed alcuni locali della vecchia filanda di Sondrio vennero utilizzati per ospitare le Scuole Elementari.
Qui, Mosè Bartesaghi, ragazzino vivace, intelligente, ma mai troppo interessato alle vicende scolastiche, trascorse gli anni, che allora erano sei. degli Studi Elementari. Entrò poi, senza eccessivo entusiasmo, nelle Scuole Tecniche dove, un po’ stretto in un ruolo di studente che non sentiva suo, riuscì a restare per due anni.
A questo periodo risalgono anche i suoi primi approcci con il mandolino, al quale resterà sempre legato (ancor oggi è un abile suonatore di questo strumento, molto bello e purtroppo un po’ dimenticato). A scuola non stava male, studiava quel che c’era da studiare, sempre un po’ di meno, mai di più.
Anche in famiglia non stava male, però un po’ troppo spesso c’era bisogno di tirare la cinghia. Così, appena gli si presentò l’occasione di andarsene a lavorare, se ne andò senza rimpianti. Abbandonò la scuola ed iniziò il suo apprendistato di conciatore di pelli, presso la Conceria Carini di Sondrio.
Aveva 14 anni ed era il 1923. La sua prima paga settimanale fu di 30 lire.
Era un lavoro faticoso per un ragazzino come lui passato da una vita nel complesso spensierata ad un orario in fabbrica di non meno di 10 ore al giorno. 10 ore per sei giorni la settimana. Le pelli lavorate erano solo in piccola parte di produzione locale, mentre per la maggior parte arrivavano dall’estero (in quegli anni dal Sud Est asiatico).
Per la concia delle pelli era necessario il tannino che veniva ottenuto direttamente in conceria con un procedimento di macinatura di grandi quantità di cortecce appositamente importate.
Il piccolo Mosè, il cui orario “contrattuale” di lavoro era di 9 ore, raggiungeva e superava le 10 ore, perché si fermava in fabbrica a macinare le cortecce. L’impianto di macinazione era sostanzialmente quello di un frantoio, con una grande mola in pietra che riduceva in segatura molto fine la corteccia.
Questa segatura veniva poi messa a bagno per ottenere il rilascio del tannino (dopo lo sfruttamento, la segatura veniva asciugata e compressa in particolari formelle dette “robiole”, che erano poi vendute come “legna” da ardere).
Nella seconda metà degli anni Venti entrò come calciatore nella Sondrio Sportiva (rimanendovi per qualche anno), nel ruolo di terzino. Per questa attività domenicale, non solo non ricevette mai nessun compenso, ma dovette sempre contribuire in proprio alle trasferte della squadra.
Nel 1929, pochi mesi dopo essersi fatta la “morosa”, fu chiamato a fare il militare; naturalmente, come la maggior parte dei Valtellinesi del tempo fu messo nel V° Reggimento Alpini. Questo aveva il comando a Milano e lì, di solito, si stava durante l’Inverno, mentre nelle altre stagioni si “passava il tempo” in addestramenti sui monti della Valtellina, acquartierati a Tirano oppure a Bormio.
Dopo i 18 mesi regolamentari di servizio militare, Mosè Bartesaghi riprese il suo lavoro in conceria e si sposò con Maria Zanchi, una operaia del “Cotonificio Fossati”, la più grande fabbrica della città (il padre di lei era venuto in Valtellina da Nese, in provincia di Bergamo, come fuochista nel cotonificio Keller).
Vogliamo fermarci brevemente a sottolineare l’importanza che ebbe questo incontro. Lui, persona nel complesso piuttosto timida e riservata, lei invece, un vero e proprio ciclone. Lui chiuso e abbastanza taciturno, lei estroversa, sempre pronta alle battute, al sorriso ed alla spensieratezza.
E la presenza di questa donna, ricca di umanità e di voglia di vivere, fu un vero e proprio terremoto nella vita di Mosè Bartesaghi.
Nel 1933 nacque il primo figlio Giuseppe (Peppino) e, in successione. Elena nel 1935, Roberto nel 1936, Renato nel 1942, Ermanno nel 1944 ed infine Giuliana nel 1948.
Avendo quattro figli a carico e lavorando in una industria utile alla produzione bellica, Mosè Bartesaghi ebbe la fortuna di non partecipare direttamente come combattente alla Seconda Guerra Mondiale. Si può comunque immaginare quali dovessero essere le difficoltà di un operaio di quegli anni che doveva pensare a dar da mangiare ad una famiglia così numerosa (si potrebbero raccontare centinaia di episodi legati alla faticosissima lotta per racimolare di che vivere in quegli anni).
Nel 1948, dopo la difficile parentesi bellica, la situazione divenne ancora più insostenibile perché, per divergenze con i suoi datori di lavoro, si licenziò dalla ditta Carini.
Non era certo facile trovare subito un altro lavoro, in quegli anni e a Sondrio, così decise di mettersi a fare il calzolaio, a fabbricare scarpe in proprio. Questa sua passione era andata maturando negli anni ed era iniziata con la costruzione degli zoccoli per i numerosi figli.
Poi lentamente, dagli zoccoli era passato ai “peduli” (sorta di scarpe in stoffa tipiche della Valmalenco), poi alle scarpe per bambini ed infine alle scarpe vere e proprie.
Non erano scarpe particolarmente raffinate, ma erano scarpe solide, destinate a durare negli anni, come del resto la gente chiedeva.
Mentre lui in casa con il suo banchetto da calzolaio costruiva scarpe, la moglie Maria, sarta molto conosciuta, confezionava vestiti “su misura”. Le sue clienti erano soprattutto persone dei paesi intorno a Sondrio che, per recarsi a lavorare al Cotonificio Fossati, risalivano la via Scarpatetti e passavano quindi davanti alla casa dei Bartesaghi.
Capitava anche, non di rado, che scarpe e vestito si confezionassero per la stessa persona (persone sicuramente non ricche, che però, come sottolinea Mosè Bartesaghi “pagavano subito senza farti aspettare mesi, come invece facevano certi ricchi di Sondrio”).
Ma l’avventura del calzolaio terminò presto perché era impossibile tener testa alla concorrenza fatta con scarpe prodotte in serie.
Le scarpe fatte interamente a mano erano solide e durature, però non potevano certo competere, quanto a prezzo, con quelle prodotte dai calzaturifici, che allora si stavano affacciando sul mercato.
Gli toccò quindi, sebbene a malincuore, abbandonare quel lavoro, per inventarsene un altro. Curiosa fu la scelta che fece.
Andò infatti a fare il ferraiolo in una ditta edile che in quegli anni si stava affermando sul mercato delle costruzioni, in grande espansione a Sondrio.
Il suo nuovo lavoro consisteva nel preparare il tondino di ferro per il cemento armato, piegato secondo le esigenze di progetto.
” Era un lavoro bellissimo – ricorda Mosè Bartesaghi – un lavoro che mi prendeva al punto tale che portavo a casa le misure delle cose da fare e studiavo tutti i possibili accorgimenti e le possibili soluzioni per evitare spreco di materiale e per fare più in fretta”.
Passato ad un’altra ditta a svolgere lo stesso compito, ma con più responsabilità, vi rimase fino al 1962, anno in cui la ditta fu chiusa e Mosè Bartesaghi si trovò di nuovo senza lavoro.
Altri si sarebbero forse scoraggiati, ma lui no, anzi, quasi fosse una sfida contro il destino, decise di ricominciare tutto da capo con una nuova attività. Andò a lavorare, nel turno di notte, presso un distributore di benzina di Sondrio. Dalle 8 di sera alle 8 del mattino.
Era una faccenda molto diversa dai lavori precedenti. Quando qualche cliente nottambulo suonava il campanello, bisognava alzarsi per fare il pieno di benzina (“Fortuna che adesso hanno inventato i distributori automatici”, mi dice sorridendo).
Anche in questo mestiere, strano, faticoso e ingrato, Mosè Bartesaghi trovò il modo di ritagliarsi uno spazio personale molto curioso. Al limite del comico.
Il distributore in questione era di fronte ad una caserma della polizia e si stabilì molto presto una amichevole intesa con alcuni poliziotti. Questi erano come lui particolarmente amanti della musica e quindi si poteva assistere spesso a questa simpatica situazione: il benzinaio del turno di notte ed i due poliziotti che svolgevano lo stesso turno in caserma si trovavano a suonare presso la pompa di benzina. Nacque così un gustosissimo trio formato da due chitarre e dal mandolino suonato dal Mosè Bartesaghi. Era una vera e propria esibizione musicale alla quale partecipavano non di rado gli stessi clienti della pompa di benzina o i poliziotti della caserma.
L’unica cosa spiacevole era che, ogni tanto, si dovevano interrompere le suonate, perché c’era da fare un pieno di benzina a qualche cliente impaziente e poco amante della musica.
Trascorsi comunque sette anni presso il distributore, sempre col turno di notte (ed il lunedì libero) e raggiunti i 60 anni, Mosè Bartesaghi se ne andò in pensione e potè finalmente dedicarsi a tempo pieno alla attività fotografica, una passione molto speciale, un hobby, a volte anche un quasi-lavoro

Antonio Boscacci, nota biografica in ”Mosè Bartesaghi. Una vita di fotografie”, 1994